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Antefatto

Il suono del silenzio nell’intera stanza.
Fuoco rubino a presiedere l’istante.
Fiabe e sogni. Vita e disegni a oscillare lentamente
nella luce riflessa…
La base su cui si erge la struttura portante dell’Onirico.
Il battito di ogni singolo tracciato al di sotto della nostra realtà.
Continuava ad ammirare il luogo rapita,
non curante del resto intorno…
Una figura blu scuro a materializzarsi alle sue spalle…
Nei sogni tutto è concesso.
I loro pensieri erano tangibili.
Vivere sapendo di star sognando,
sapendo di poter celare maschere e confini.
Le grandi mani accolsero quelle delicate di lei. Occhi chiusi.
I colori delle loro anime,
sfumature di un’unica tonalità cromatica…
Entrambi fecero lo stesso sogno quella notte…
Entrambi avrebbero continuato a ricordare…
Entrambi avrebbero continuato a ricercarsi nella vita
e nel suo scorrere…


 


19 Ottobre
Ore 5,00 a.m.
Terzo piano - Jugendstil P alace
Domenica. La settimana lavorativa giungeva al termine.
Continuava a ripetersi stanca che in un certo qual modo anche
per quella sera ce l’aveva fatta.
L’ambiente lavorativo dal profumo finto, gli sguardi accaniti
della gente, le luci a taglio forte del locale, la musica oscena.
Finito.
Un’altra giornata da cui era riuscita a staccarsi senza sprofondare
nell’oblio.
Il ritorno a casa verso il finire della notte.
Infilò con un gesto automatico la chiave nella serratura e
dette due giri secchi: il rumore prodotto dall’intelaiatura di sicurezza
della porta blindata la invitò a scivolare dentro casa. I
pensieri le si accavallavano fino a diventare indecifrabili.
Dopo una certa ora riusciva a vedere e sentire di tutto.
Davvero di tutto.
Chiuse la porta. Buttò a terra la borsa e sospirando per il
sonno che le si stava cucendo addosso, si sfilò il trench bianco,
lasciò che si accasciasse sulla credenza vicino all’entrata e accese
la luce dall’interruttore principale, poi andò in bagno.
Vide un varco dalla forma conica protendersi dal corridoio.
Il suono che produceva era simile a quello di una turbina d’aereo
lanciata in un pozzo profondo miglia.
Queste cose si sognano Sarah, lo sai, si volle ripetere, ancora
qualche istante e te lo potrai permettere pienamente.
Si sedette sulla tazza e urinò. Doccia gelida, come piaceva a
lei. Uscì barcollando e si diresse verso il soggiorno.
Fu una lenta caduta verso il divano. Come al rallentatore,
senza sottofondo musicale, se questo fosse un film. Rimase supina
immobile a occhi aperti, ancora per un po’.
Ultime riflessioni alla luce di una lampada alogena.
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Si tirò su dal sofà e assunse una posizione rilassata stupendosi
di non avere più sonno. Almeno così le sembrava.
Si ritrovò a sudare freddo. Il sogno cominciò a fluire…
riaprì gli occhi. Erano rimasti solo il divano e la lampada
scura. Il resto non c’era più, le pareti, i mobili, i quadri
appesi, il pavimento di marmo, le finestre ad ampie vetrate.
Solo Bianco. Puro. Senza spaccature. Bianco sospeso.
Un sentore di spazio atavico simile all’origine dei sogni,
da cui Sarah si sentiva generata e attratta allo stesso
tempo; una sorta di verità molto più reale e percepibile
della materia stessa. Un bianco intenso, un bianco
morbido e palpabile, un bianco pieno.
Il trench cadde dal mobile. Un rumore atono, abbastanza
per scuotere Sarah dal suo stato di rapimento onirico, un senso
di ruvido giù per la gola.
Spense la lampada allungando con le residue energie rimaste
un braccio verso di essa. Ripensò ancora una volta alla notte di
lavoro.
Aveva dovuto anche sostituire il numero di Erika, ma nel
complesso era stata una serata nella norma. Il locale come ogni
fine settimana straripava di clienti. Sarah aveva percepito lo
sguardo lascivo delle persone su di sé e come ogni volta la sensazione
era stata sgradevole, torbida.
«Stacca la spina». Il consiglio di Erika, era sempre lo stesso:
«Immagina di ballare in privato per il tuo uomo, immagina di
volerlo far sbarellare».
Sarah un uomo non l’aveva, ma il consiglio era sempre stato
utile sinora.
Nonostante le imbeccate di Erika, non aveva potuto fare a
meno di notare due uomini in completo scuro appostati sotto
al palco che l’avevano spolpata con gli occhi. La cosa che più
la infastidiva però, erano le luci abbaglianti a sistema rotatorio
che a sincope le infrangevano le pupille.
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Ai clienti piaceva quella ragazza dal fisico esile, il suo sorriso
delicato, i suoi capelli rossi e le lentiggini appena accennate; andavano
letteralmente in visibilio per il suo muoversi frenetico al
ritmo di quei suoni acrilici.
Sarah sapeva muoversi bene. Questo sì. Seguiva il ritmo incessante
dei beats. Suoni artificiali dalle atmosfere metalliche,
melodie invasive.
Musica senza pensieri.
Così le piaceva chiamarla. Ti lasci andare al martellio della
drum-machine e al vuoto mentale che ti genera e fai quello che
devi fare. Intanto ti guadagni da vivere. Arrivi a casa e puoi
dipingere.
Unica regola datasi, come avrebbe detto la sua amica Erika:
non smollarla. Alcune s’intrattenevano con i clienti anche dopo
l’orario di chiusura del locale arrotondando così sul mese. Nessun
obbligo, la decisione stava a te. Scendere a compromessi
sì, ma fino a un certo punto. Le piaceva l’idea di avere una
sorta di codice deontologico, anche all’interno di un ambiente
come quello. Lo stesso codice che le permetteva di guardarsi
allo specchio ogni giorno senza rimproveri.
Quella sera Samantha si esibiva nel priveé insieme ad altre
cinque ragazze. I tizi pagavano un botto di soldi per potersi
strusciare contro di loro. Il compleanno di qualcuno. Un modo
come un altro di festeggiare facendoselo venire duro. Champagne
e bigliettoni nei tanga delle squinzie.
Se minimamente si intuiva l’andar al di là del solo flirt, venivano
avvertiti i buttafuori all’esterno della stanza a soppalco.
Palpeggiare sì, andare a fondo no, era considerato out. Per gli
extra si poteva sempre prendere appuntamento con una delle
ragazze se questa ci stava, uscita dal lavoro erano fatti suoi ciò
che faceva, patetico. Uomini di mezza età che facevano serata
nella magra speranza di rimediare una botta facile in macchina
appena fuori dal locale, sbombati d’alcol e arrapati sino a non
capire più niente. Per ora a Sarah non era stato richiesto questo
tipo di prestazione e la cosa non le dispiaceva affatto.
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L’importante per la direzione era trovare sei o sette ragazze
che dandosi il turno dessero la loro disponibilità. L’importante
era far cassa. Mettere a proprio agio i clienti, sedurli nel tentativo
di farli consumare il più possibile. Il resto non importava
loro. Pagavano il tuo tempo. La merce su di un mercato che
rasenta il limite del grottesco e del pudore, tuttavia del tutto
legale e sotto agli occhi di tutti. Verso l’una di notte il posto era
pieno. Brulicava di gente, nuovi ricchi su di giri, ventenni dallo
sguardo assente, Ralph Lauren attillata e chiavi della fuoriserie
di papà in mano; anziani uomini vestiti di tutto punto, eleganti
prostitute d’alto bordo, gente in giacca e cravatta fatta di acidi
o coca in delirio da desiderio sessuale. Smania da eiaculazione
post cocktail.
Così, dopo ogni notte di lavoro, provava una chiusura erronea
alla base dello stomaco, mista a sudore e voglia di emergere
da quella sua condizione d’instabilità permanente.
Deglutì a fatica.
Sarah chiuse gli occhi. Di nuovo il bianco. Domani avrebbe
dipinto.
19 ottobre
Ore 5,00 a.m.
appartamento Contini
Secondo piano – Jugendstil P alace
Cinque di mattina, avrai dormito sì e no due ore e mezza. Segnatelo
chico, un quarto d’ora in meno di ieri.
Goditi il buio di casa, illuminato solo dalla brace del tuo
cigarillo e dalla traballante luce dei lampioni in strada. Tra breve
spegneranno anche quelli, meritato riposo, almeno per loro,
per l’importante servigio a favore del genere umano, illuminare
le tenebre, io invece dovrei spegnere quel televisore.
Non ho neanche voglia di chiavare, troppo impegno. Quello
che mi disturba in realtà non è la televisione, ma il fatto che non
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riesco a sopportarti. Stronzo arrogante che non sei altro… ma li
hanno aumentati di nuovo sti cazzo di sigari?
E tra due ore in office. Fanculo insonnia di merda te, e tutti
i fottutissimi medici ai quali dai da vivere; le pasticchette di
quello speziale sono servite solo ad aumentare il mio bruciore
di stomaco.
«Le consiglio queste compresse Sleep Well».
O come diamine si chiamano.
«Vede signor Contini, oggi un europeo su tre soffre di insonnia,
ha idea di quanto costi alla nostra società? Scarsa resa
sul lavoro, incidenti stradali causati da improvvisi colpi di sonno,
inevitabile aumento di patologie legate al ridotto numero di
ore di riposo, emicrania, stati confusionali, sino a veri e propri
scompensi a livello neurovegetativo».
A me lo vieni a dire, coglione, quanto è duro dormire poco?
La gente è proprio suonata. Pensano tutti di sapere cosa tu
debba essere, cosa tu debba fare, ma è solo una farsa. Una recita.
Ma occhio a non stuzzicare troppo Dieghito perché cominciano
a fumarmi le palle.
«Come suppongo lei sappia, è durante la fase R.E.M., compresa
tra le quattro ore dopo che ci si è addormentati e il risveglio
che il cervello dà vita alla sua attività onirica, è la fase in
cui si sogna, per intenderci… blah, blah».
Secondo lei da quanto tempo è che non dormo più quattro
ore consecutive? Credo di non ricordarlo neanche più io.
Incompetente!
«Questo è l’ultimo ritrovato in fatto di sonniferi, il nostro
informatore farmaceutico è convinto che in un paio di anni trasformerà
il rapporto uomo-sonno».
Sì, buono anche quello, l’informatore farmaceutico. Avessi
dei dipendenti così, ma sai quanti calci nel culo? A proposito,
chissà quei quattro rincoglioniti dei miei venditori, mi viene
male solo all’idea di rivederli tra poche ore, chissà se sono riusciti
a piazzare uno straccio di alloggio o almeno uno sgabuzzino
questa settimana; ma cazzo se li faccio correre questa volta.
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E nel pomeriggio il super boss, anche lui, ma come avrà fatto
ad arrivare sino a lì? Lurido trippone, non sai neanche com’è
fatta una casa figuriamoci venderla, con qualsiasi altra persona
al tuo posto aumenteremmo il fatturato almeno del trenta, se
non del quaranta per cento.
Mi si è spento ancora… ’sta merda di sigaro!
A quanto pare non sono il solo ad essere sveglio. Eccola lì
la rossa che torna a casa; chissà che cazzo fa in giro sino alle
cinque del mattino. È da quindici giorni che mi sono trasferito
in questa fottuta palazzina e quando la vedo, è sempre a
quest’ora… boh!
Dove ho messo l’accendino? Ah, sì! Cazzo ho già fatto andare
mezzo pacchetto!
Certo che non è niente male, guarda che culetto, trench
bianco, camicetta leggermente sbottonata ma non troppo ovviamente,
secondo me dietro quest’aria da ragazzina per bene
è capace che ti faccia dei lavoretti di bocca very professional.
E allora bisogna andare a testare al più presto le capacità ludico
motorie della rossa. Devo assolutamente attraccarla, magari
domani, magari mentre parla con quello sfigato del portiere.
Devo ammettere che nonostante tutti i fronzoli di questa
palazzina stile liberty mi facciano vomitare, il fatto che si affacci
proprio sulla strada ha i suoi aspetti positivi. Se non altro
inganniamo un po’ il tempo! Eccolo! Il vecchio della casettina
qui sotto che si alza all’alba per dar da mangiare ai suoi gatti e
uccellini, è come dar contemporaneamente da mangiare a leoni
e gnu, o a Bip bip e a Will il Coyote. Porca puttana! Lo sai che
per il resto della giornata cercheranno, uno di fuggire e l’altro
di fargli la festa; o stai con uno o con l’altro! E invece guardalo,
toglie la copertina dalla gabbia dei canarini, la scuote un attimo,
aggiunge un po’ di becchime, cambia l’acqua, fischietta un
po’ con loro prima di dedicarsi alle ciotole dei gatti, poi rientra
nella sua casettina monovolume. Bah! Chissà una volta rientrato
che cazzo farà anche lui?
Gli passerei sopra con l’auto.
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E quest’altro chi è, lo storpio del villaggio? Si è fermato proprio
davanti all’ingresso della palazzina, cosa avrà trovato di
interessante nella facciata? Dopo la Bella, la Bestia… secondo
me è ubriaco. No, non ci credo. Sta salendo!
Altro cigarro, ci sta tutto, brucia troia e con te le mie speranze
di dormire ancora un paio di ore.
La sento perfettamente la rossa adesso, è come se mi camminasse
sopra la testa.
Si è tolta le scarpe con i tacchi, le lascia cadere stancamente
prima di entrare in bagno; via l’acido urico in eccesso. Poi prima
di entrare nel box doccia lascia cadere tutto ai suoi piedi,
jeans, camicetta, canottierina, probabilmente la nostra ragazza
per bene porta lingerie firmata, con un tanga da urlo con il
quale intorbidisce il pacco ai colleghi ogni qual volta si piega
a raccogliere una biro o la risma di carta da aggiungere alla
fotocopiatrice.
Ed ecco che la voglia di scopare ritorna alla grande. Da farsela
in piedi con solo il suo cazzo di trench addosso.
Stronza la vita, quante gliene darei…
Cinque minuti esatti di doccia, non uno di più non uno di
meno, la signorina è di una regolarità sconcertante; e poi a nanna.
Nel suo bel pigiamino di seta.
Già a nanna, noi tra un’ora siamo nuovamente in pista!
Dai. Ultima stabaccata, doccia, barba e si parte!
Sogni d’oro piccina.
19 ottobre
Ore 5,00 a.m.
Lungo il Viale alberato dello Jugendstil P alace
Claude Morel ritornò in città che era ancora notte. Lasciò l’auto
in strada e gettò uno sguardo distratto alla facciata dello Jugendstil
Palace, mentre le prime foglie ingiallite degli alberi andavano
a depositarsi lentamente sul parabrezza della macchina;
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gli capitava oramai spesso di uscire a quelle ore e dirigersi verso
una meta imprecisata, come se potesse impegnare il tempo in
uno scivolare via lontano da ansie e ricordi, come se potesse
insabbiare il dolore nel flebile cuore dell’oscurità.
Inspirò profondamente osservando il palazzo nella luce contorta
dei lampioni, si ravvivò i capelli sospirando, dirigendosi
claudicante verso l’entrata.
L’autunno, contrariamente al suo passo infermo, si avvicinava
a grosse falcate.
A poco a poco riaffioravano le immagini dell’incubo che lo
aveva distolto dal sonno poche ore prima.
Continuava a vedere la strada scorrere a grande velocità e
venire verso tutti loro. Subito dopo le urla dei passeggeri nell’abitacolo
rovesciato si trasformavano in figure raccapriccianti.
Il dolore recato dal frastuono al padiglione auricolare era
talmente vivido da sembrare reale.
Salì le scale. Nonostante il ‘fastidio’ alla gamba destra, non
aveva voluto prendere l’ascensore nel timore che il rumore della
grata in ferro potesse svegliare i vicini, e poi come al solito
dopo aver guidato, non aveva più sonno.
La fievole luce che filtrava dalla porta aperta dell’appartamento
di fronte, lo distolse dalle sue angosce notturne. Riuscì
a intravedere la sagoma in controluce di una giovane donna:
Sarah…
La porta si chiuse dopo pochi secondi. Di colpo, la luce delle
scale si spense.
Rimase immobile immerso nel buio statico di quell’istante.
Cercando l’interruttore della luce, fece scorrere la mano sul
muro poroso. Gli venne in mente quando anni prima lui e Mirelle
fecero l’amore sul pianerottolo della loro stanza d’albergo,
Caterina non era stata ancora concepita. All’esterno albeggiava,
loro si erano accarezzati delicatamente, dopo essersi appoggiati
al muro bianco; l’unico suono che ancora Claude ricordava di
quegli attimi, era quello provocato dalle mani di sua moglie che
strisciavano sulla parete nuda senza provocare rumore…
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Un riflesso morbido del loro amplesso.
Claude entrò nel suo appartamento. Accese tutte le luci, lasciandosi
trascinare dalla sensazione oramai perduta che solo il
fuoco famigliare era riuscito un tempo a donargli.
Quel calore smagliante ora però, era monco.
Ogni locale aveva assunto un aspetto senza forma. Ad eccezione
della stanza di sua figlia, unico ambiente in cui ancora si
poteva percepire quel fremito di vita che un tempo permeava
l’intera casa.
Entrato nello studio, si tolse il cappotto, sospirò a lungo. Il
suo regno. Libri e polvere, vecchie cineprese a invecchiare, film
e immagini; dolore a scomparire. Il cinema era uno specchio
dell’esistenza, vite ritratte in profondità, rivolte verso un senso
logico del tutto; verso un senso di destino più ampio del suo
soffrire. A sostenerlo in tutti quegli anni e a far sì che non si
lasciasse mai andare sino al fondo fangoso della perdizione, era
stata appunto quella passione per la settima arte e, soprattutto,
per Caterina.
Questo gli dava la forza di lottare sino al giorno seguente,
e a quello seguente ancora, e così via. Solo di tanto in tanto si
concedeva il lusso di pensare a Mirelle; in realtà questo pensiero
non lo abbandonava mai, lasciandolo stranito, come lontano
da ogni cosa. Ogni volta.
Si appoggiò al muro.
Di fronte, un ritratto di loro tre, scattato anni fa… una di
quelle foto che la consuetudine impoverisce. Uno di quei ricordi
che però, rievocati, lacerano a sangue le proprie ferite.
Continuava a dirsi che un giorno tutto avrebbe preso un’altra
piega, che ogni cosa poteva essere risolta, o almeno così
voleva credere, nonostante ciò l’incubo ancora vivo nella sua
testa lo pungeva freddamente, senza lasciarlo solo un istante.
Di nuovo: la velocità della strada, il rumore lacerante delle urla,
lo schianto imminente!
Scoppiò in lacrime.
Inghiottì, soffocando la propria malinconia.
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Si versò della roba forte da bere, continuando a guardare
fuori della vetrata; il mondo nella sua latenza, il risveglio di un
universo in piccoli movimenti. L’anziano signore della casa di
fronte allo Jugend, Giovanni Mottura, dava vita al rituale con
cui ogni mattina salutava il nuovo giorno dedicandosi, con la
cura e l’attenzione di sempre, al suo esercito di animali domestici.
Il signor Mottura alzò per un attimo lo sguardo verso l’appartamento
di Claude, accortosi di essere osservato, salutò con
un cenno della mano prima di ritornare alle sue occupazioni.
Incredibile. Gatti e canarini che vivevano sotto lo stesso tetto
in perfetta armonia. Forse per il nostro martoriato pianeta
c’era ancora speranza.
Momenti senza tempo; come se lo scandire dell’orologio non
potesse provocare più nessun effetto sulla sua vita, o su quella
degli altri. Al contrario, nell’interezza della giornata, il battito
dei minuti costante, aveva la possibilità di divenire quasi ossessivo.
Erano solo pensieri senza reale fondamento, era solo per riuscire
a non ricadere nella sensazione che la fotografia gli aveva
scatenato, solo per non ricordare più l’incubo notturno: tutte
quelle grida, la totale assenza di controllo.
Sapeva che una volta sveglio realmente, tra poche ore,
avrebbe affrontato come tutti i giorni, il mondo con spirito
combattivo, avrebbe accantonato ferite e passività; conosceva
bene la sua corazza, l’aveva costruita in anni e anni di duro
allenamento e solitudine.
Ora però era mattina, si sentiva ancora vulnerabile volendo
allo stesso tempo esserlo, lasciando che il giorno venisse, che la
notte scivolasse via veloce. Senza spigoli. Senza più memorie.
Trangugiò lacrime miste a ciò che rimaneva nel bicchiere…
un’altra notte era passata.
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19 Ottobre
Ore 12,15 p.m.
Reception
Jugendstil Palace
Sarah spinse con decisione la pesante porta d’ingresso dello Jugendstil
Palace. Guardò con l’ammirazione di sempre lo sforzo
titanico con cui le due pesanti statue in pietra reggevano parte
del palazzo. Ne squadrava la possanza amandone gli sguardi, di
un’umanità sfrontata. Entrò quasi di corsa, per bloccarsi però
subito dopo. Non poté fare a meno di sorridere, anzi dentro di
sé già rideva e anche di gusto.
Mr Waits era alle prese con la signora Fioroni, zelante proprietaria
di un lussuoso appartamento al terzo piano, la quale
perfettamente cotonata e armata di barboncino sottobraccio si
lamentava per una lettera recapitatale in ritardo.
«Lei capisce benissimo Mr Waits che vi sono circostanze in
cui le informazioni che devo ricevere sono estremamente importanti
e che, di conseguenza, non possono essere rinviate al
giorno dopo».
«Perfettamente d’accordo con lei signora Fioroni, ed è proprio
per questo che ho montato la guardia notte e giorno alla
sua importantissima missiva, senza mai perderla di vista neanche
per un attimo. E ora con il conforto delle prime luci del
mattino, dono dell’infaticabile Apollo, mi apprestavo novello
Ermes a consegnarle il prezioso plico».
«Non capisco bene a cosa si riferisca, del resto non conosco
nessun signor Apollo né tanto meno questa compagnia di
spedizioni, la Ermes cargo a cui fa riferimento, mi farebbe solo
piacere ricevere la mia posta per tempo».
«Già, il tempo agisce sulle cose esattamente come sulle persone,
le irrigidisce e toglie loro freschezza».
Sotto lo sguardo attonito di Sarah la signora Fioroni, a quanto
pare questa volta conscia di ciò cui ci si riferiva, strappò di
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mano la lettera a Mr Waits e si incamminò verso l’ascensore,
trascinando il povero barboncino, quasi strozzato dal guinzaglio.
Fatti pochi passi si girò e con aria compita ma affabile,
salutò Sarah con un cenno del capo.
Il fatto che avesse perso la pazienza con quell’essere inaffidabile,
non voleva dire che una persona che rivestiva la sua
posizione sociale dovesse dimenticare le più basilari norme di
bon ton.
Sarah ricambiò il saluto e appena la signora Fioroni si fu
voltata cercò, sorridendo con gli occhi, lo sguardo complice di
Waits.
Il portiere farfugliava tra sé e sé una vecchia canzone: Blue
Valentine. Quasi a dotarsi di una colonna sonora al suo muoversi.
And I’m always on the run
That’s why I changed my name
And I think you’d ever find me here. So…
Sand me blue Valentine.
«Buon giorno! La vedo in splendida forma nonostante tutto…
».
Sarah non terminò la frase, accortasi di essere andata un
po’ oltre. Il ‘nonostante tutto’ era riferito al fatto che quotidianamente
Waits veniva in contatto con personaggi del calibro
della signora Fioroni e che, da una settimana a quella parte,
non potesse più fumare alla reception, da quando un gruppo di
inquilini adirati, gli aveva fatto recapitare una lettera di diffida
dall’amministratore, nella quale veniva ufficialmente redarguito
per il suo comportamento non in sintonia con il decoro dello
stabile.
«In splendida forma Piccolo fiore. Ho appena finito di tradurre
il secondo libro del Mahabarata». Arrotolandosi l’ennesima
sigaretta della giornata aggiunse: «Come ti spiegavo giorni
fa, in commercio si trova solo una parte dell’opera tradotta e
questo è davvero riprovevole… bisognerà pure che qualcuno
metta una pezza a questa mancanza». Lo disse scuotendo la
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testa quasi a non capacitarsi della cosa, intento a non far cadere
il tabacco dalla cartina.
«Sì, me l’ha spiegato; ma lei non dovrebbe fumare qui, sa a
cosa va incontro, no?».
«Con quello che mi pagano, credo sia molto difficile che possano
allontanarmi. Ti ringrazio dell’attenzione comunque Piccolo
fiore, cercherò di fumare meno e quel poco, il più vicino
possibile alla porta di servizio».
Leccò veloce sulla chiusura della sigaretta, poi la sbatté leggermente
sul palmo della mano dalla parte del filtro, in modo
da compattarne il contenuto e se l’appoggiò al bordo della bocca,
irrompendo in un largo e acuto ghigno.
Sarah provava un reale sentimento privo di malizia per quel
personaggio da dipinto dimenticato, da romanticismo di strada
notturna, burbero e ispido, sentiva di poterne assimilare tutto il
fascino sentendosene accolta, protetta.
Ciò che più le piaceva, stava nella completa assenza di giudizio
da ambo le parti, nel provare quella sintonia che da sempre
caratterizzava il loro rapporto, nel sentirsi remotamente al
sicuro… a casa.
Il modo di presentarsi di Mr W con quell’aria perennemente
trasandata non aiutava di certo le relazioni con gli altri condomini,
facendo inevitabilmente passare in secondo piano lo
spirito arguto di cui era dotato. Basettoni fuori moda su barba
costantemente di tre o quattro giorni, capelli arruffati; per non
parlare delle giacche che sembravano esser state disegnate da
un sarto che sadicamente si era divertito a farne le maniche
leggermente fuori misura, nelle quali, però, lui si muoveva con
una certa disinvoltura. Doveva essere stato quello che si dice,
un bel tipo da giovane. Sì, sicuramente, ma tanto tempo fa, una
vita… forse la precedente.
«Un giorno mi racconterà dove ha imparato il sanscrito,
vero Mr Waits?».
«Certo Piccolo fiore, un giorno…»
Tac… tac… tac…
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Il ticchettio ritmico di un bastone sul pavimento di marmo
preannunciava l’arrivo del Colonnello*.
«Buon giorno Colonnello! I Vietcong sono alle porte della
città?».
«Non fare lo spiritoso ragazzo. Solo gli sciocchi possono
pensare che una guerra si combatta solo una volta dichiarata».
«Giusto, e silenzio… il nemico ti ascolta!».
Sarah ebbe giusto il tempo di pensare, eccolo che parte di
nuovo in quarta!
«È che non mi è ben chiaro chi siano i nostri nemici, i comunisti,
gli anarchici, la televisione…».
«Tutto ciò che può danneggiare il paese, ragazzo mio. Del
resto da quando anche la televisione è in mano a forze sovversive
».
«Effettivamente!».
«La saluto ragazzo mio».
* Maurizio Furniero, nato a Taranto. Dopo gli studi primari nel paese
natio, la famiglia si trasferisce per questioni di lavoro a Parma. È
qui che terminato il liceo, il giovane Maurizio s’iscrive all’accademia
militare e ne esce con i gradi di sottotenente. La sua carriera militare
segue la breve campagna italiana in Africa: Eritrea, Somalia Italiana,
Libia.
Si mette in mostra per la determinazione e l’efficienza dimostrate sul
campo di battaglia. Ritornerà in Puglia anni dopo a seguito dello sparuto
gruppo di ufficiali che seguirà re Vittorio Emanuele III a Brindisi
all’indomani dell’armistizio. Pochi anni prima dello scoppio della seconda
guerra mondiale, ad un ricevimento presso il console francese
a Massaua, conosce Susanna che da lì a un paio di anni diverrà sua
moglie e dalla quale avrà un figlio, Paolo. Il quale anche lui, come il
padre, deciderà di servire la patria nell’esercito ma come amministrativo.
Il vecchio Maurizio non glielo perdonerà mai!